Viaggi e ritorni per ritrovare il sé e i suoi cieli infiniti

“…è l’oltrepassare progredendo un’ascesa che rende il viaggiare un’esperienza pedagogica unica”
Ogni viaggio è una storia e ogni storia è un uomo, è una donna con le sue schegge di pensieri e di vissuti.
Viaggiare da sempre è una ricerca di felicità e di libertà in un mondo in cui ciascuno di noi, nonostante tutto, spesso si sente triste e schiavo e si affanna a cercare un equilibrio seppur provvisorio nei processi di velocizzazione moderni.
Il viaggio ha in sé una dimensione formativa pedagogica rilevante soprattutto in un contesto di crisi e frammentarizzazione identitaria.
I luoghi e i non luoghi diventano “spazi di sperimentazione, di proiezione e di reciprocità” (Colapietro, 2004). L’io ha l’opportunità di autocostruire esperienze, di negoziare significati, di sviluppare l’immaginario e di prendere coscienza del sé, attraverso l’osservazione, la riflessione e l’ascolto.
Si lascia la propria terra spinti da motivazioni “carenziali”, da intendersi non esclusivamente nel senso di bisogni fondamentali e primari di un essere vivente (Maslow 1971), ma in quel disperato tentativo di colmare un vuoto, che il progresso non è riuscito ad eliminare. Oggi, siamo un po’ tutti degli inquieti erranti, con le tasche e le valige piene di memorie e di emozioni.
La nostra casa ci appare arida, consumata e ci fa sentire uomini di periferia, così decidiamo volutamente o necessariamente un nord e un centro.
Il viaggio dell’adulto del secondo millennio è sempre un po’ una fuga e una speranza di una vita nuova. Si fugge dalla guerra o dalla pace, dalla povertà o dalla ricchezza, dal caos o dalla tranquillità, quello che conta è “andare”.
L’Alfieri viaggiatore nella Vita ben rappresenta la condizione del soggetto sempre con le valige pronte tra la smania di partire e la fretta di tornare. Non ci sono molti occhi per contemplare i luoghi perché non c’è tempo per guardare o per sentire voci o profumi.
Solo alcune rare volte ricordiamo un luogo perché nel momento stesso in cui lo osserviamo esso diventa parte di noi, rappresentazione spaziale del nostro essere al mondo. Sono i luoghi dei nostri viaggi “apicali”, “di non ritorno”, quei viaggi che ci iniziano al mondo. Per molti Pugliesi il primo viaggio è Milano, capitale ambita della moda, dell’economia, del turismo di massa, della cultura, e alla quale ognuno di noi connota e attribuisce un suo personale significato.
Ciascuno fornisce rappresentazioni diverse dello stesso luogo perché ciascuno ha il suo ricordo, le sue emozioni. Partiamo da turisti con i nostri bagagli personali fatti di pregiudizi, filosofie di vita, aspettative, sogni, immaginazione; attraversiamo insieme con lo spazio illusioni, disincanti, meraviglie e stupore; diventando così viaggiatori consapevoli e attenti in grado di problematizzare il viaggio e di utilizzarlo anche come “un’occasione preziosa per la comunicazione intergenerazioanle” (Demetrio, 1998).
In questo senso il viaggio diventa un atto di riconoscimento e di conoscenza di sé.
Ogni momento dell’andare, diventa parte di noi e allo stesso tempo, ci racconta un po’ di noi, del nostro modo di essere, di apparire, di relazionarci. Esso fa emergere le nostre fragilità e i nostri punti di forza.
Nelle luci notturne di un aeroporto così come in un rumoroso vagone di un treno il nostro io si confronta con altri io e altri luoghi e si scopre diverso.
In quel “fuoco che brucia nello sguardo altrui” (Hermann, 1943) ritroviamo il nostro sé sconosciuto con le sue cripte (Abraham, 1987) e i suoi fantasmi.
Il viaggio diventa un momento di adultizzazione. Esso rientra a mio avviso tra le peak experience (esperienze apicali) di cui parla Maslow, in quanto segna profondamente il corso di una vita.
Perché il viaggio compromette la “normalità” della nostra esistenza, ci obbliga continuamente a rischiare, a scegliere, a decidere attraverso un processo autoapprenditivo di tipo strumentale, dialettico e autoriflessivo (Mezirow, 2004).
Ciò che arricchisce e allo stesso tempo spaventa in un viaggio è che esso è lo spazio dell’incontro (Caldani Galli, 1996). E, ogni incontro agisce sul scaffolding dell’io e lo destruttura (Buber, 2000).
Nella società della comunicazione per eccellenza ognuno di noi sembra essere paradossalmente stato educato all’arte del non-incontro (Bauman, 1996). Stiamo ben attenti a non intossicarci dell’altro restiamo sulla soglia con le nostre paure liquide (Bauman, 2009). Ci schermiano dietro un facebook o una chat, ma in un viaggio reale siamo costretti a guardarci e a spogliarci della nostra identità in rete. Lo sguardo dell’altro ci racconta (Canevaro) e ci “mette in forma”. Il confronto ci fa crescere e ci fa diventare migliori, ci restituisce il senso perduto e il nostro originale sepolto.
Dopo il nostro vagare sempre alla ricerca di cieli infiniti e alla fine scopriamo che quell’altrove e quell’oltre non sono altro che dentro di noi.



Notizie sull’autrice

Maria Ermelinda De Carlo collabora con la Cattedra di Educazione degli Adulti presso l’Università del Salento come esperta dell’area della metodologia della ricerca qualitativa nei processi di formazione in età adulta all’interno di un Progetto di Ricerca Nazionale Interuniversitario (coord. naz. Università degli Studi di Roma Tre). Dottore di ricerca in Italianistica, si interessa dello studio comparato tra letteratura e pedagogia con particolare riferimento agli strumenti autobiografici applicabili e sperimentabili nei percorsi di lifelong learning. Tra i suoi scritti più recenti: “Autobiografia e odeporica: interrelazioni di genere. Da un percorso letterario al metodo formativo della scrittura di viaggio nell’età adulta” (2009); “Autobiografie allo specchio. Strumenti metodologici del ri-leggersi tra educazione degli adulti e narratologia” (2009); “Auto-blog-grafia: la nuova frontiera della formazione informale”, in LLL Focus on Lifelong Lifewide Learning (2009).