Mi sono chiesto che senso avesse curare la pubblicazione di libri di poesie, già scritte, nel dialetto salentino. Mi riferisco a “Terra mara e nicchiarica” (Terra amara e desolata), Manni Editore, 2006 e “L’umbra de la sira”, (L’ombra della sera), Edizioni Atena, 2009, scritte prima del 1977, anno della morte, da Fernando Rausa, mio padre. E ho trovato questa giustificazione: i testi sono significativi e vale la pena di farli rivivere, perché legati alla rappresentazione di storie e personaggi tipici, protagonisti di fatti e
“misfatti”, ma che comunque hanno lasciato traccia delle loro azioni.
L’idea di preservare la memoria di una società con la poesia e il racconto è importante, perché essa con l’atto della narrazione getta un ponte fra le generazioni, assume il compito di testimone e indica la necessità
della conoscenza e della cultura come bagaglio da trasmettere alle generazioni future. Tale bagaglio comprende usi, costumi, modi d’essere che, costituendo le fondamenta di qualsiasi società civile, devono essere preservati dall’oblìo.
Che ruolo svolge il narratore? Con il suo atto consegna un lascito molto importante, costituito da valori, esperienze e convinzioni, ai quali ha ispirato la sua vita.
Questo patrimonio assume il significato di eredità culturale quando
passa da un rapporto personale a quello sociale, ovvero quando coinvolge le vecchie e le nuove generazioni in un gioco di riti di passaggio, finalizzati a mantenere e a migliorare la tradizione.
La narrazione comporta l’affidamento di una pluralità di intenti, di propositi, di convinzioni e di urgenze che, dal momento in cui il poeta consapevolmente assume su di sé il destino della comunità, diventano espressione lirica, canto di dolore, desiderio e aspettativa di cambiamento che riguardano noi tutti.
Le vicende umane non hanno conosciuto solo le attività volte alla sopravvivenza della specie (agricoltura, allevamento, manifattura, ecc.), ma anche altre mosse da rovinosa ostilità oppure pervase dall’idea dell’ignoto, della scoperta di nuovi territori, oppure tese alla sospensione del destino di morte, naturale o indotto.
Solo più tardi la loro trasmissione verrà affidata alla scrittura e alla narrazione.
Immaginate della conoscenza di quali e quanti personaggi eroici, come l’irato Achille o il prode Ettore o l’astuto Ulisse dal multiforme ingegno, saremmo privati se un poeta, che convenzionalmente riconosciamo nel cantore Omero, non li avesse decantati oralmente?
A volte la narrazione di storie e racconti serve a dilatare il tempo della vita, come ci insegna Sherasade, che nelle “Mille e una notte” avvince il sultano e nell’attesa di un nuovo racconto di fatto esorcizza la morte.
Altro esempio di nobile narrazione a fine morale sono le parabole raccontate da Cristo: il buon samaritano (chi è il nostro prossimo?), il ritorno del figliol prodigo (sacrificare o non sacrificare il vitello più grasso?), sull’investimento del denaro ricevuto (conservarlo o farlo fruttare?).
Il narratore, possiamo dire, compie lo sforzo di assumere su di sé una certa tradizione culturale della propria terra e della propria gente. La rielabora con la sua sensibilità e la trasmette alle nuove generazioni, come un tedoforo che porta la fiaccola.
Il sentimento che spinge il narratore è l’amore, ovvero l’indicazione a guardare oltre al proprio “ombelico” e a capire che il nostro agire riguarda, oltre noi, il nostro prossimo.
Solo con questa visuale saremo in grado di dare sempre il meglio di noi, di predisporci alle cose che ci accingiamo a fare, qualunque esse siano, nel miglior modo possibile per noi e per gli altri, ricordando (ecco il monito!) che la nostra esperienza sulla terra è limitata e quindi nostro compito inderogabile, una volta ricevuti i beni in eredità dalle generazioni che ci hanno preceduto, è preservarli migliorandoli per quelle future.
Attraverso l’ispirazione il poeta, in questo caso, mio padre, cerca di comunicare i suoi sentimenti, l’amore smisurato per la propria terra, per quanto spesso tradito, per una cultura rappresentata anche dalle piccole cose quotidiane, ma tipiche e imprescindibili, per es. l’odore di un fiore, il conforto di un amico, il divertimento di un gioco, la passione di un amore, la dignità del lavoro, la rinuncia dolorosa, il respiro della giustizia, l’esercizio dei diritti, la necessità dei doveri, la sacralità del lavoro e l’impegno costante per raggiungere il fine prefissato.
E’ possibile comprendere questo messaggio, se si valuta con la giusta ponderazione il patrimonio di saggezza che affonda le sue radici nella nostra storia culturale locale, fatta di stenti, di soprusi, di privazioni ma sempre pervasa da una visione umanistica che pone al centro l’essere e il progresso come fini dell’agire per il raggiungimento di condizioni sociali sempre più avanzate, in una società più giusta e che offre più opportunità a tutti.
Insomma la “Terra mara e nicchiarica” è una condizione di desolazione esistenziale, ma non per questo senza redenzione; il “Siminati nove cuscenze” è un imperativo rivolto alle nuove generazioni, perché assumano su di sé il compito, arduo ma salutare, di dirigere con strumenti nuovi e verso lidi più sicuri il naviglio della società.
Tuttavia la narrazione attraverso la lingua “ca mamma e tata me ‘mparasti ddicu” non deve assolutamente farci volgere lo sguardo al passato, come l’angelo di Benjamin che guarda indietro.
La lezione da trarre è che dobbiamo fare tesoro di quel bagaglio culturale trasmesso, forgiare le nostre coscienze. Questo strumento ci consente di capire la realtà, interpretarla tenendo conto dei cambiamenti che intervengono, sapendo piegare gli apporti che ci giungono dalla tradizione e non solo attraverso la narrazione, il “cunto”. Insomma la narrazione è quel legame utile e indispensabile tra il prima e il dopo del tempo arcaico e storico, quello strumento per comprendere i rapporti fra l’alto e il basso dei ceti sociali.
E’ l’occhio che scruta il di fuori e il di dentro dell’uomo e della società, al fine di contribuire ad alleviare il viaggio che compiamo nel corso della nostra vita.