artina ha 700 anni? Non ci credo. Come ha fatto a raggiungere quell’età senza invecchiare? Io la vedo sempre splendida, affascinante. Superba, sì, con i suoi balconi spanciati, le sue logge, i lineamenti rococò di alcuni suoi palazzi. Elegante, signora d’alta classe, celebrata anche per il Festival della Valle d’Itria, noto e apprezzato in tutto il mondo, trampolino di lancio per talenti musicali. Io la vedo così la “mia” Martina, mia tra virgolette, avendo io avuto la culla altrove, nella “molle Tarentum”, la città dei Due Mari, del Galeso caro a Orazio; e arrivai sul Chiancaro quando ero soltanto un marmocchio spericolato. Lì lo zio prete, don Martino Calianno, che nelle serate estive trascorse nel trullo di “Marusarie”, vicino al nostro, applaudiva Dionigi e Ciccille che pizzicavano le corde dei mandolini, aveva mezzo tomolo di terra rossa con pochi pampini e pochi alberi: due noci, un pero “recchia false”, tre o quattro fichi a parapioggia, “’nu lazzarulo”, pianta ormai quasi estinta, e un ciliegio altissimo, imponente. Lo scalavo con l’abilità di un babbuino e dalla cima osservavo tutto ciò che si stendeva intorno: “casedde” con il cappuccio in testa, ulivi sempreverdi, viti inginocchiate come in preghiera, una quercia che era, ed è, un monumento. Allora nella campagna martinese stridevano le cicale e svolazzavano le farfalle: ricordo il macaone per la sua policromia. E mi domando il motivo della scomparsa delle une e delle altre da questo paesaggio unico al mondo che ispirò pittori come Filippo Alto, nascita a Bari, dimora e studio a Figazzano, e letterati.
Martina, io ti amo. E tu ami me: non mi hai mai deluso. In te trovo rifugio quando la grande città m’innervosisce; trovo conforto, tranquillità, riposo. E l’ospitalità della gente, sensibile e intelligente, laboriosa e intraprendente, creativa, geniale, le doti di Guido Lenoci, che in via Brera a Milano fece della sua galleria un tempio dell’arte d’avanguardia, e fu amico di Raffaele Carrieri, Dino Buzzati, Paolo Grassi, Raffaele De Grada, Pierre Restany, teorizzatore del “Nouveau Realisme”.
Martina, ti amo con fedeltà. E siccome senza le opere l’amore, come la fede, è sterile, faccio quel che posso, nel mio piccolo, per farti conoscere a chi non ti conosce. “Andate a Martina – dico ai miei sodali – è un angolo benedetto dal Signore. Martina è una regina”. Quando calano le ombre, vado da via Alfieri, dove risiedo, al Ringo e al “Curdunidd”, che visitai per la prima volta in compagnia di un caro amico, che purtroppo non c’è più: Pierino Pavone, persona civile e perspicace, commerciante di cappotti di produzione propria a Cutrofiano, nel Leccese, e contadino nel fondo ereditato dal padre al primo chilometro di via Mottola. Se ne vantava; e vantava il cappero che lussureggia a un palmo dal piazzale e la vigna gravida.
Penso a lui, mentre, emozionato, attraverso il groviglio di viuzze del centro storico, soffermandomi all’ingresso delle “’nchiostre”: budelli ciechi, quinte e fondali da palcoscenico rischiarati dalle luci delle abitazioni e da quelle dei lampioni appesi. Martina, adoro le tue case, con le facciate bianche come il latte; gli usci sempre lindi, grazie alle donne avverse al disordine e alla sporcizia. Ammiro i fiori che incorniciano le altane; le fontanelle sparse sulle strade. Anche quando piove m’inoltro in questo delizioso labirinto sino alla Basilica di San Martino; a via Caracciolo, sede di “Umanesimo della Pietra”, preziosissima rivista che ha come bussola e nocchiero Nico Blasi. La tua pioggia non m’infastidisce, anzi m’inebria, mi sciacqua l’anima. Amo il suo picchiettare sui vetri delle finestre. Amo osservare dal mio davanzale gli ombrelli che fioriscono sui rari passanti, quando gli scrosci arrivano, annunciati dalle nuvole imbronciate. Amo la tua neve, che, silenziosa, viene giù, donandoti un abito da sposa. Amo persino il vento, che colora d’argento le foglie del pioppo, che è ormai un grattacielo, tra l’alloro e i tre castagni, in fondo alle mie esigue zolle. E amo la vecchietta che sferruzza, seduta accanto alla sua porta, a due passi dalla Lama, spontaneo anfiteatro che in un’edizione della Ghironda si offrì all’eleganza, al portamento, al virtuosismo di un’èquipe di campioni del tango.
Ogni anno, spesso quando posso, vengo da te, Martina, come un figlio devoto. No,non ho la presunzione di appartenerti: è un onore che non mi spetta. Io ti amo e basta. Con umiltà. Sapessi quante volte dalla città dei Navigli il mio pensiero corre a te, Martina. Quante volte vorrei essere nel tratturo, di fronte al mio trullo, a respirare la tua aria che tonifica. Non è bello, il mio trullo; anzi: lo hanno dovuto imbacuccare perché aveva qualche acciacco; e non si vedono più le pietre. Ma sulla vetta conserva fieramente la sua sfera. Mi è caro: è un trullo di Martina, in contrada Pozzo Tre Pile, a un tiro di fucile da un boschetto, dove a centinaia spettegolano da mattina a sera le cornacchie. Sono 40 anni che mi ristoro in quest’oasi di pace. Ti ringrazio, Martina. Se hai davvero 700 anni, dove sono le tue rughe?